Il 25 novembre 1960 le tre sorelle Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal, che vivevano nella Repubblica dominicana, vennero violentate, torturate e uccise dopo essere state rapite mentre andavano a visitare i loro mariti, incarcerati perché attivisti politici. In seguito a varie e susseguenti deliberazioni di governi e nazioni, nel 1993 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato la “Dichiarazione per l’eliminazione della violenza contro le donne”, scegliendo come data celebrativa quella indicata dalle attiviste latinoamericane in memoria dei terribili avvenimenti contro le sorelle Mirabal.
La sensibilizzazione sociale contro ogni forma di violenza contro le donne ha raggiunto oggi una ampia diffusione, purtroppo ancora poco efficace perché discriminazioni e soprusi restano un dato inquietante e irriducibile della cronaca quotidiana.
Le belle parole non mancano, le testimonianze sono commoventi e convincenti, i provvedimenti legislativi fanno la loro parte, la diffusione dell’idea di rispetto nell’educazione è sempre presente e incentivata… eppure la violenza non sembra poi molto calata. Anzi, complice forse l’amplificazione delle notizie nella varietà dei media, la sensazione è che addirittura possano essere aumentate. I recenti tempi di isolamento familiare e stress da pandemia hanno visto un incremento documentato di picchi di violenza.
Forse, sommessamente, si potrebbe deporre un poco della vis polemica e strumentale a certe prospettive forzatamente egualitaristiche e guardare al fenomeno con uno sguardo più alto e insieme più antropologico che sociologico? Provo a spiegarmi: l’analisi dei fenomeni causati dall’essere umano non può prescindere dalla considerazione che l’uomo ha di sé stesso. Certamente si possono studiare, e proficuamente, comportamenti umani e dinamiche relazionali con gli strumenti messi a disposizione dalle scienze sociologiche, traendone così indicazioni e considerazioni interessantissime e utili alla convivenza civile.
Ma se solo volessimo andare oltre alle, pur necessarie ma non sufficienti, regole del vivere insieme nel modo più armonioso possibile, dovremmo ammettere alcuni passaggi logici ed esistenziali che attengono più al senso dell’essere che al regolamento di condominio. Di più: ignorare e liquidare come argomentazioni futili (o peggio frutto di derive confessionali) alcuni capisaldi delle dinamiche spirituali che muovono l’agire di ogni uomo, conduce ad un annebbiamento del quadro che si vuole esaminare, con la tragica conseguenza che ogni terapia proposta si rivela inadeguata, quando non dannosa.
Primo assunto: l’essere umano entra nella storia e nel tempo come un soggetto non automaticamente buono. Al contrario, egli è bisognoso di essere educato, di essere istruito sul senso del suo esistere e di essere accompagnato nella comprensione del suo valore. Il “buon selvaggio” o si crede un dio o si crede un verme. Nessuna delle due prospettive garantisce il vivere civile, entrambe impongono la legge del più forte.
Secondo assunto: l’essere umano impara più dagli esempi suffragati dalla ragionevolezza, piuttosto che dalle nozioni astratte. Condotte violente ammantate da buone azioni o accettate tacitamente per quieto vivere o, ancora peggio, elogiate come dimostrazioni di forza e di prestigio possono essere seguite o precedute da mille dichiarazioni e da proclami pomposi, ma ciò che resta e che convince sono le condotte iconiche, a maggior ragione nel nostro tempo caratterizzato da forte comunicazione per spot, piuttosto che per elaborazione di pensiero.
Terzo assunto: non c’è condivisione ampia, financo universale, che faccia diventare buono, accettabile e lodevole un gesto cattivo. Detto altrimenti: non c’è azione “politicamente corretta” che possa pretendere di giustificarsi solo sul fatto che è diffusa, promossa, perseguita.
Ben venga, allora, ogni possibile manifestazione di solidarietà alle vittime di soprusi e violenze. Si aumentino le occasioni di insegnare il rispetto e la salvaguardia della dignità femminile (e non solo, di ogni persona). Non ci sia ombra di connivenza con le sottoculture del bullismo e del machismo.
Ma non ci si nasconda dietro a qualche slogan, si abbia il coraggio di rispettare la realtà in tutta la sua complessità: le donne più uccise in quanto donne e in quanto non volute, perché di troppo o non desiderate, sono le bimbe abortite. Le donne maltrattate perché donne sono spesso, troppo spesso, le proprie mogli e madri. Le donne ingannate sono le ragazze cui si racconta che possono fare tutto quello che vogliono del loro corpo, perché tanto – al bisogno – ci sono pillole e pilloline per evitare quella che sembra l’unico inconveniente derivante dalla reificazione della loro sessualità, una eventuale gravidanza. E sono le madri cui si racconta che no, non è un figlio colui che hanno in grembo, ma solo un “qualcosa” di cui si ha diritto di disporre in modo assoluto.
Senza un autentico rispetto per ogni essere umano, basato sul solo fatto che esiste ed è come tutti gli altri, da quando la sua vita inizia a quando spontaneamente finisce qui sulla terra, non solo non avremo pace: non avremo certamente né stima né venerazione per alcuna donna.
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