Nel 1978, con la legalizzazione dell’aborto volontario, si è inaugurata nel nostro Paese una scellerata deriva culturale, che proclama e promuove la disponibilità della vita umana, ridotta alla stregua di una “cosa” di cui ci si può disfare a piacimento. Con l’aborto, in particolare, questo impianto culturale ha fondato l’idea che perfino la vita del bimbo nell’utero della propria mamma – in quella che è, o dovrebbe essere la culla più sicura della terra – è a disposizione della scelta della donna, che può “scegliere” di negargli la vita. Con spirito davvero profetico e con quella saggezza umana che la fede affina e alimenta, Suor Teresa di Calcutta lanciò un vero e proprio grido di allarme l’11 dicembre 1979, in occasione del Premio Nobel per la Pace che le era stato assegnato: “Io sento che il più grande distruttore della pace oggi è l’aborto, perché se una madre può uccidere il proprio bambino nella culla del suo grembo, chi potrà fermare me e te dall’ucciderci reciprocamente?”. La stessa Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948), scritta nel momento in cui tutti i popoli avevano ancora negli occhi e nel cuore le immagini della disastrosa esperienza della guerra mondiale e del tragico evento dell’olocausto, proclama nell’ incipit del Preambolo che “Il riconoscimento della dignità intrinseca e dei diritti uguali e inalienabili di tutti membri della famiglia umana, è il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. Fino a quando le istituzioni nazionali e internazionali sosterranno l’aborto volontario come un diritto, addirittura come un “diritto umano fondamentale”, negando il primo vero diritto, il diritto alla vita, il mondo non avrà mai pace. La raccolta di testimonianze qui pubblicata è una vera e propria finestra spalancata sul “dramma” dell’aborto, ove si delinea con grande chiarezza, senza ideologismi di parte, che l’esperienza abortiva è sempre e comunque un evento tragico, che miete vittime fra tutti gli attori di quel gesto: bambino, mamma, famiglia, società. Trasformare una tragica evenienza in un “diritto” è il suicidio della civiltà di un popolo. I numeri e le statistiche non hanno colore ideologico, e sono eloquenti testimoni di uno scempio al quale pare non si voglia mettere argine. Più di sei milioni di bimbi abortiti in 40 anni di legalizzazione, in un Paese come il nostro la cui prima e indiscutibile emergenza è la denatalità, quel rifiuto della vita che sta sterilizzando la nostra società, condannata all’estinzione – se il trend non muta – nel giro di pochi decenni. Già si stima che nel 2050 gli italiani saranno poco più di 40 milioni. Sono parecchi anni che in ogni circostanza – opportune et importune, dice la Scrittura – stiamo facendo risuonare una domanda di semplice buon senso, che dovrebbe andare direttamente al cuore della società civile: “Chi ci perde se nasce un bambino di più?”. Chi può sentirsi offeso e discriminato se facciamo ogni sforzo per far nascere un bimbo, sottraendolo alle tenebre dell’aborto? Quante donne, quante “mamme” sceglierebbero l’aborto se la società offrisse loro concrete condizioni di scelta per la vita, dal sostegno economico a quello lavorativo, assistenziale e familiare? In più di quarant’anni di professione medica, non ho conosciuto una sola donna che si sia pentita di aver tenuto il proprio bimbo, mentre ne ho conosciute molte che si sono dolorosamente pentite di aver abortito! Una libera scelta, per essere tale, impone che si abbia di fronte l’alternativa fra due possibilità: l’esperienza insegna che accade molto frequentemente che la donna “scelga” l’aborto perché non ha davanti vere possibilità di vita, per il proprio bimbo e per sé stessa e, dunque, liberarsi del bimbo appare come l’unica soluzione di tutti i problemi. È drammatica e colpevole la totale latitanza dello Stato di fronte alla tragica scelta di interrompere la gravidanza: sono più di quarant’anni che la stessa legge 194 vorrebbe che si aiutasse la donna a recedere dalla decisione abortiva, attraverso proposte di aiuto concreto. E che cosa si è fatto? Nulla. Non si è fatto nulla. Si è applicata, con acribia e ideologica solerzia, la parte abortiva della legge, e non si è fatto nulla – proprio nulla – per tentare di evitare la decisione di abortire. Sono quasi trecentomila i bimbi che sono venuti al mondo, sottratti ad una prima scelta abortiva; ma tutto il merito di questo gesto veramente umano va ai CAV, al Movimento per la Vita, al Progetto Gemma, al mondo di quel volontariato virtuoso che “pagando di tasca propria” ha garantito il diritto alla vita della più debole e inerme delle creature, anche facendosi “prossimo” di quelle donne che – in numerosi casi – sono lasciate completamente sole, con i loro pesanti fardelli di paura, delusione, insicurezza e sofferenza. Una società veramente civile ha il dovere di prendersi cura della donna, che – è bene ribadirlo con forza – nel profondo del suo cuore non vuole abortire, ma vorrebbe avere il frutto della sua maternità fra le braccia, attaccato al suo seno. E non vederlo “prodotto biologico”, dentro un sacchetto di plastica in sala operatoria o – peggio – nel fondo del water o del bidè (è riportata una forte testimonianza in tal senso), dopo aver assunto la pillola abortiva. Le politiche pro-aborto sono politiche contro la donna, contro il più nobile dei suoi gesti, la maternità, contro il più naturale dei suoi sentimenti, l’accudimento del suo bimbo. Non c’è nulla di umano nel favorire la morte di un bimbo, e non c’è nulla di umano nell’abbandonare una gestante, con l’alibi ipocrita che “l’ha scelto lei!”. Le testimonianze raccolte in questo libro hanno il grande pregio della concretezza, dando al lettore l’opportunità di conoscere da vicino le condizioni umane e psicologiche che animano questo variegato mondo della cosiddetta “scelta” abortiva. È un prezioso strumento che si prefigge il più nobile dei fini: salvare la vita di un bimbo e quello della sua mamma. Un filosofo di inizio ‘800, Friedrich Hölderlin, scrisse “Ciò che spesso fa della nostra vita un inferno, è la nostra pretesa di farne un paradiso”: tante donne che hanno abortito, raccontano, con dolore, di essere cadute in un inferno, mentre la società le ha lasciate sole, abbandonate, ingannandole con la promessa del “paradiso”, una volta liberatesi di quel peso…!
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Fonte: “Una chat per la vita” a cura di Vittoria Criscuolo e Susanna Primavera, edizioni Ares
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