Rinnovare l’impegno a non rassegnarci

Per una “cultura di vita” bisogna Rinnovare l’impegno a non rassegnarci ai ‘luoghi’ divenuti ‘comuni’: si può realizzare vera solidarietà con chi soffre, ad ogni livello, dall’emarginato al malato gravissimo.

di Chiara Mantovani

Chiara Mantovani, nata a Ferrara nel 1953, medico chirurgo. Sposata, ha 4 figli e, finora, sette nipoti. Perfezionata in Bioetica all’Università Cattolica del Sacro Cuore sotto la direzione del cardinale Elio Sgreccia. Dal 2003 al 2006 membro dei Comitati Etici ferraresi dell’AUSL, dell’Azienda Ospedaliero Universitaria e dell’Ordine dei Medici. Impegnata nel volontariato del Servizio di Accoglienza alla Vita di Ferrara dal 1988, resta a lungo alla presidenza della locale sezione dell'Associazione Medici Cattolici Italiani e viene chiamata a far parte del Consiglio Nazionale. Incaricata di supportare la nascita di Scienza & Vita nella sua città, entra a far parte del Consiglio Esecutivo nazionale a cui appartiene a tutt’oggi.

5 Febbraio 2023

45Giornata per la Vita – 5 febbraio 2023

«La morte non è mai una soluzione. “Dio ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte” (Sap 1,14)».

Il Messaggio dei Vescovi Italiani per la 45a Giornata per la Vita ha il grande pregio di accendere un potente riflettore sui quesiti più spinosi dell’attualità. Ormai non sfugge a nessuno che negli ultimi decenni il piano inclinato verso la disistima della vita umana sia divenuto ulteriormente ripido. Nella percezione delle persone, anche le più miti e altruiste, si è fatta strada una rassegnata considerazione di impotenza di fronte ad un mondo che sempre più invoca la morte come soluzione. Di certo non siamo aiutati a scrollarci di dosso questa malinconia né dalla cronaca né dalla riflessione filosofica, talvolta neppure da una religiosità stanca e priva di slancio missionario.

E così sentiamo ripetere sempre più spesso, ovunque, persino da persone di fede, ritornelli inquietanti: “poverina, talvolta l’aborto può essere una cosa buona”; “ormai sta tanto male che porre fine ad una vita priva di senso può andar bene”; “ma perché spendere tanti soldi nell’accudire uno così, che si è rovinato con le sue mani?”; “se è un mio desiderio, deve essere anche un mio diritto, costi quel che costi”; “l’importante è che siano scelte libere, ognuno è padrone di sé stesso”. È un’antologia terribile, tanto realistica quanto drammatica. La protagonista, l’ospite ingombrante, il sottinteso – invero oggi spesso esplicitato – è una sola: la morte. Soluzione comoda, economica, vantaggiosa o liberatoria, non scarseggiano i falsi argomenti per nobilitarla. Come se nella valigetta del medico, nella borsa della casalinga, nel computer del manager ci fosse sempre pronta una ricetta infallibile: soffre? Costa troppo? Non lo voglio? Mi annoia? Non c’è problema, c’è la morte.

I Vescovi, ma con loro anche tutti i pensanti, coloro che non si sottraggono alla fatica di ragionare con cuore limpido e intelligenza applicata, si chiedono: ma come mai siamo giunti ad accettare con tanta rassegnazione Il diffondersi di una “cultura di morte”? come può essere che la disgrazia che ha avvelenato la vita a causa dell’invidia del diavolo [il Libro della Sapienza dice proprio così: “Per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo” (Sap 2,24)] oggi ci appaia come bella?

Ma poi, dare la morte funziona davvero? Siamo sicuri che sia un rimedio, che convenga? Siamo più felici o crescono le ansie e le vendite degli psicofarmaci? E soprattutto: le nuove generazioni che cosa stanno imparando da noi? La “cultura di morte” è una questione seria, non è giusto banalizzare così la vita da renderla indifferente ad un traguardo che certamente l’attende, ma che ha bisogno di essere pensato e affrontato. La consapevolezza che la morte è un passaggio, e non un capolinea, cambia radicalmente la prospettiva e il giudizio: se almeno noi cristiani – che crediamo della vita eterna – non ci facciamo carico della responsabilità di raccontarlo al mondo, allora c’è davvero da temere per la nostra credibilità.

Per una “cultura di vita” bisogna Rinnovare l’impegno a non rassegnarci ai ‘luoghi’ divenuti ‘comuni’: si può realizzare vera solidarietà con chi soffre, ad ogni livello, dall’emarginato al malato gravissimo; si può dire che la vita è bella in sé e va protetta fin dal concepimento; si può applicare la ragione nella ricerca di soluzioni giuste, con verità nella carità e carità senza misura, ai conflitti di ogni genere, dal condominio al Parlamento alle Nazioni; si può educare al bello al buono e al vero senza disturbare nessuna coscienza, anzi, offrendo occasioni per accrescere capacità di responsabilità e maturità umana.

Non accontentiamoci di false soluzioni facili: rischiano di essere finali, ma verso il baratro.

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