Pubblichiamo per gentile concessione del quotidiano “La Verità”
La tragica vicenda dell’omicidio della giovane Giulia Tramontano e del suo bimbo, vivente nel suo grembo, oltre al profondo dolore e allo sconcerto indicibile che ci hanno lasciati ammutoliti, ci impone una seria riflessione sul grande tema della vita, troppo spesso imprigionato entro carceri ideologiche. Pochi giorni fa, sulle pagine di questo stesso giornale, è sembrato necessario affrontare un altro aspetto della dolorosa vicenda, alla luce dei postulati del nostro ordinamento giuridico.
Mentre non c’è ombra di dubbio che, nella mente e nel cuore di ogni italiano, le vittime di quella tragedia sono due – mamma e piccino – l’articolo 575 del nostro codice penale (“Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni 21”) prevede di procedere per un solo omicidio, quello della mamma, perché il piccolo vivente nel seno materno non è dotato di “personalità giuridica”.
In pratica, sul piano giuridico penale, quel piccolo non esiste e, dunque, non può essere stato ucciso. Siamo di fronte ad uno di quei casi in cui il semplice buon senso non può trovare spazio nello stato di diritto, in quanto il “concepito” non ha diritti. E’ paradossale: mentre la cultura diffusa – soprattutto nelle società occidentali – è quella del riconoscimento assoluto di ogni diritto (perfino quelli più strampalati, vedi “diritto al suicidio assistito”), di fronte al diritto alla vita del piccolo Tiago neppure se ne parla, non si prende in considerazione, perché quel piccolo cuore battente, violentemente fermato, non c’era, non c’è … è un mero cavillo biologico!
Già avevamo ricordato che, ad inizio legislatura, il senatore Maurizio Gasparri aveva presentato una proposta di legge per il riconoscimento della personalità giuridica del concepito, sollevando il solito vespaio di polemiche ideologiche e strumentali che ruotano intorno alla legge 194, ed ora possiamo registrare un altro significativo passo in avanti in ordine al riconoscimento del valore della vita: la senatrice Licia Ronzulli, pochi giorni fa, ha depositato presso il Senato della Repubblica un disegno di legge, collegato all’articolo 575 del CP, riguardante il caso di “omicidio di donna in stato di gravidanza”. L’inasprimento della condanna che ivi si propone, deriva dalla presa d’atto che gli omicidi commessi sono due, che le vite stroncate sono due, perché il bimbo non è un’appendice della mamma: è una vita che è stata violentemente interrotta.
Tragicamente, la vergognosa piaga dei femminicidi nel nostro Paese non si arresta: nel 2021 70 casi, nel 2022, 55; nei primi mesi di quest’anno già 14. La prevenzione e la repressione sono quanto mai indispensabili e la recentissima legge, fortemente voluta dal ministro Eugenia Roccella, dopo anni di discussioni senza approdo normativo, va proprio in quella direzione. Ciò detto, non possiamo tacere che mai l’assassino di una donna incinta è stato condannato anche per la morte del nascituro. Va ribadito con forza che la sola e semplice esistenza in vita di un essere umano, fonda il suo inalienabile diritto alla vita e, dunque, ad essere tutelato e difeso. La vera civiltà di un popolo si misura fondamentalmente su questo parametro: ogni nostro concittadino – anche se ancora nel grembo materno, anche se piccolissimo, anche se disabile o non perfetto – non è mai una “cosa” da scartare. Di conseguenza, interrompere con violenza la vita di una donna incinta, significa compiere un duplice omicidio e come tale va riconosciuto e condannato.
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